domenica 29 aprile 2007

iL dOlCe CoN lA cReMa No

cerco di parlare alle persone
e le persone non mi
stanno ad ascoltare
preferiscono parlare
a loro volta immaginare
l'evidenza delle cose
un colpo basso andato a segno
le avvertenze prima dell'uso

le lucciole nei prati
il pulsare della notte
la mia vena adesso scoppia
liberando la mia idea di tempo
gli uccellini belli
il suono della campanella
la bidella che si incazza
se cammini dove ha gia pulito

devo confessare ho un opinione
troppo stupida per
farne una canzone
o per farne quattro rime
sale nella bocca
si no grazie forse un po' di dolce
con la crema non ce l'ho
ma fa lo stesso !
e non ce l'ho! (ma come no?!)

bene o male tutto come al solito
cantabile e una coca media e poi tirami su
bene o male tutto come al solito
indifferenza e malumore

quand'è l'amore
e le persone
che fanno cose
le fan col cuore

SfIgAtO LaMeNtO

Ho fatto male a parlarti dei miei insuccessi
Le cose vanno sempre peggio per chi non sa come suonar la vita
E ritrovarsi spalle al muro senza luci o vie di uscita
Contare solo ciò che sembra giusto o vero sulle proprie dita
E stare attenti a non sbagliare ad usare più di due o tre dita perché

L’ultimo treno sono io
Quello che non si ferma in nessuna stazione perché tanto non c’è mai nessuno da far salire
Io che per tutti quanti
Sono il robboso senza dio che ha sempre cercato di essere identico agli altri

Starci male ed imparare a sbattersi le balle
E prender ogni giorno come fosse niente restando ad aspettare
Un cambiamento un po’ improvviso, qualche nota un po’ insolente
Qualche cosa in cui tuffarsi senza la paura di toccare il fondo
Qualche cosa che sia diverso dal mio vecchio e sfigato lamento perché

L’ultimo treno sono io
Quello che non si ferma in nessuna stazione perché tanto non c’è mai nessuno da far salire
Io che per tutti quanti
Sono il robboso senza dio che ha sempre cercato di essere identico agli altri
Come tra tutti i fogli sparsi
Sono la pagina che non vai mai a cercare, il testo di cui ti puoi dimenticare

La MiA fAvOlA

Rinati, rinati, rinati a cielo sereno
Scoppiati, scoppiati, scoppiati dando fuoco al mio pensiero
Livido libero vado attraverso i miei orizzonti
Cogito vomito concetti rispetto ai tuoi confronti

Tornati, tornati, son tornati i tempi per il grande toro
Io aspetto a rilento vado lento pensando al mio tesoro
La mia prosa fa buchi da ogni parte ne rimango scontento
Mi dicono che sono lento solo perché penso a fondo

Scrivo versi per fare il verso a ciò che non va (ciò che non va)
La mia favola non ha morale il tema eccolo qua (eccolo qua)
Canto versi per non cantare quel che non mi va (quel che non mi va)
La mia favola non ha morale il tema eccolo qua

sabato 28 aprile 2007

La CaVeRnA dI pIeTrO

Capitolo quarto - Andata e poi ritorno

Si incamminò nuovamente lungo il sentiero, questa volta di ritorno al villaggio, seccato per la mancanza di tabacco e pipa da fumare.
Il fango aveva invaso il sentiero, ad ogni passo correva il rischio di scivolare giù per il bosco montano. Non ci volle molto tempo per intravedere i primi tetti e i primi fumi dei comignoli; l’ora era comunque tarda, il sole si preparava a cedere il passo alla luna. Si sentiva una gran varietà di fragranze diverse per le strade del piccolo villaggio, tutti quanti erano alle loro case pronti a cenare dopo un pomeriggio di duro lavoro. Pietro camminò a casaccio, e i suoi piedi lo portarono dritto alla locanda. - Numi del gran paradiso! – Non aveva mai visto la locanda così ben tenuta; le mura erano state verniciate da poco tempo, quella dannata finestra che sbatteva sempre ad ogni folata di vento era stata sostituita, ma soprattutto: sembrava non esser mai stata lambita dalle fiamme. Fece per entrarvi, ma la porta era chiusa. – L’oste sarà andato a casa a far cena. – pensò. Non riusciva però a spiegarsi come mai la locanda fosse intatta dopo l’incidente di quella mattina. Non potevano averla ricostruita in così poco tempo, escludendo un miracolo, non c’era spiegazione plausibile. Si diresse verso la sua capanna, non molto distante dalla locanda, confuso e stanco. Dopo aver parlato con un orso e con un panda, sogni o no, non rimase più di tanto stupito alla vista dell’edificio. Mentre tali pensieri passeggiavano nella sua mente, si ricordò delle due statuette di legno intagliato. Volle verificare se era diventato matto oppure no, anche se le aveva controllate ai piedi dell’enorme pino. Aprì la sacca e le trovò entrambe, una in legno e una in bambù, proprio come nei due sogni. Quando arrivò alla sua dolce dimora, rimase di sasso, fisso davanti a ciò che aveva la parvenza di una stalla. – Che fine ha fatto la mia capanna? Eppure l’indirizzo è il mio! – Si avvicinò cautamente alla stalla. Si sentivano due voci abbastanza profonde, molto familiari a Pietro. Una luce tremolante usciva dalle finestre, come se nella stanza fosse stato acceso un fuoco. Ascoltando con attenzione si poteva sentire lo strepitare del legno che bruciava. Aprì la porta lentamente. - Numi del gran paradiso! – Agreste Panda e Leopoldo stavano seduti in terra accanto al fuoco, mangiando uno un rametto di bambù e l’altro un pezzo di carne secca. Lo salutarono calorosamente, ma lui, senza dar loro il tempo di avvicinarsi, scappò via verso il bosco. Corse per molto tempo, anche se sentiva la stanchezza far preda delle sue gambe. Il bosco era ora immerso nell’oscurità, non si vedeva ad un palmo dal naso. Dannata radice. Pietro inciampò cadendo con un gran tonfo a terra, sbatté la testa su di una pietra e svenne.

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Drrrrrrin – Drrrrrrrrrrrrrrrrin La sveglia. Sei e trenta del mattino. Fabrizio sembrava turbato da quel fastidioso aggeggio che si era messo a suonare l’unica mattina in cui poteva dormire fino a tardi. Un bel pugno ben assestato e la sveglia si interruppe. Fece per riaddormentarsi, quando notò qualcosa sulla scrivania. Assonnato, si alzò per vedere cos’era. Due statuette, intagliate a regola d’arte, una raffigurante un orso, l’altra un panda. Ed insieme a queste, una storia agreste senza senso con tanto di dedica: “A mon frere Fabrizio, l’omo d’la montagna”

La CaVeRnA dI pIeTrO

Capitolo terzo - ’l pian d’l pin

Dopo un’ora circa di marcia, gli alberi lasciarono lo spazio ad una radura decisamente pianeggiante per essere in montagna. Al centro di essa si ergeva un pino enorme, con un tronco larghissimo, nel quale erano stati incavati dei gradini. Salì i gradini e raggiunse un punto dell’albero in cui il tronco sembrava tagliato, a circa dieci metri di altezza. I rami nascevano ai lati di questo spazio piano, largo e lungo più o meno otto metri, e si chiudevano verso la punta, formando un tetto conoidale altissimo. Al centro della “stanza”, appoggiato in terra, vide un pezzetto di legno con una forma strana. Lo raccolse e strabuzzò gli occhi quando vide che era un pezzo di bambù con la forma di un panda.
Gli venne fame, così scese e andò in cerca di qualche piccolo animale da cacciare. Tirò fuori il coltellino tascabile e dopo un’ora tornò con una lepre. Risalì sull’albero e rimase di stucco quando vide che ora era arredato. Due letti ad un lato della stanza erano separati da un paio di comodini finemente intagliati. Un letto era di misura normale, l’altro il doppio. Al lato opposto c’era una cassa che conteneva tanti bastoncini di bambù, e al centro un tavolo, dello stesso stile dei comodini, con due sedie, una normale ed una enorme. Al centro del tavolo c’era un mucchietto di cenere contornato da delle pietre, come un focolare spento, e di fianco ad esso un paio di pietre focaie ed un acciarino. Studiò la “dimora” a lungo prima di accorgersi che i morsi della fame stavano diventando insopportabili. Si sedette sulla sedia piccola e cominciò a scuoiare la lepre e a pulirla per bene, non prima, però, di aver acceso un fuoco al centro del tavolo. Il sole stava calando e l’aria diveniva sempre più fredda. Quando ormai della lepre rimase solo la carne nuda e spellata, sentì dei passi pesanti ed un po’ goffi sulla scala, e subito sussultò alzandosi dalla sedia. Una figura bianca a macchie nere stava salendo lentamente le scale, fino a sbucare interamente nella stanza. - Numi del gran paradiso! Un panda! – esclamò Pietro, mentre i suoi occhi fissavano un cartellino legato al collo dell’animale. Sul cartellino, fatto di legno, c’era inciso “Agreste Panda”, probabilmente era il suo nome. Appena si accorse della presenza di Pietro, il panda rimase stupito quanto colui che gli stava di fronte, e lo fissò a lungo senza dire parola. – E tu chi sei? – esordì la bestia. – Mi chiamo Pietro, scusi se sono entrato in casa sua, ma aveva fame e fredd… - - Ora ricordo, sei l’amico di Leopoldo, vero? – lo interruppe il panda. – Leopoldo? Mi dispiace, non conosco nessuno con quel nome. – rispose Pietro alquanto confuso. – Ma si, dai, l’orso che vive nella caverna qui vicino! – disse l’animale. A questo punto, il suo livello di confusione raggiunse il tetto massimo: era stato un sogno o l’orso esisteva veramente? Ma, soprattutto, cosa fa un panda in un bosco di montagna, con la casa sopra un pino per giunta?!. Tutti i suoi pensieri furono interrotti dal nuovo arrivato – Io sono Agreste Panda, vivo qui da molti anni ormai, da quando ho conosciuto Leopoldo. Questo pino e suo, me lo affitta a basso prezzo perché siamo amici. Tu da dove vieni? – Nel porgere tali domande, il panda aveva preso un bastoncino di bambù dalla cassa e si era seduto nella sedia grossa, in attesa di risposta. Pietro chiuse gli occhi e li riaprì di colpo per vedere se era ancora sul pino con un panda o se stava sognando, si diede anche qualche pizzicotto, ma invano. – Sei un tipo di poche parole eh?! Siedi pure su quella sedia, fa come se fossi a casa tua. Gli amici di Leo sono anche miei amici. – Disse il panda, con la bocca piena e impastata di bambù. Non era molto alto, più o meno come Pietro, ma era, come dire, possente, molto ben in carne. Masticava sgarbatamente, con la bocca aperta che mostrava tutti e quanti gli stadi di triturazione di ciò che mangiava. Il suo respiro era pesante, a tratti tossiva perché il bambù gli andava di traverso. – Grazie. – rispose Pietro – Scusa, posso chiederti come mai un panda come te vive su di un pino qui in montagna? - - E’ una lunga storia…un paio di anni fa vivevo in Cina, la mia terra natale. Un giorno stavo banchettando tranquillo un po’ di canne, quando ecco che spuntano tre tipi stranissimi con una macchina blu di quelle lì che usate voi uomini. Non chiedermi come, ma nel giro di mezz’ora ero alla guida dell’auto che li accompagnavo a Monaco di Baviera per l’Oktober Fest! – prese fiato, deglutendo. – Non ti immagini neanche, un viaggio lunghissimo, sono stato via con quei tre per un anno e mezzo. Poi non sapevo come tornare in Cina, così un giorno, mentre vagavo per questi boschi, ho incontrato Leopoldo. E’ stato gentilissimo, mi ha accolto nella sua caverna e dopo un po’ di tempo mi ha trovato questa sistemazione. Non è male, non trovi? – concluse Agreste. –Numi del gran paradiso! – pensò Pietro, sperando che fosse tutto un sogno. Senza rispondere al panda, corse giù dalle scale e cosa trovo? La macchina blu che il panda aveva usato con quei tre. Poi si ricordò di come aveva scacciato l’orso del sogno, quindi tornò sopra e disse ad alta voce – Ma non ci sono panda che guidano, su queste montagne! –
Si svegliò di colpo, e vide che si era addormentato ai piedi del pino. La notte era passata ed il sole si preparava a sorgere a est; nessuna traccia dell’animale, dell’auto blu, della lepre o delle canne di bambù. Il pino non aveva nessuna stanza a dieci metri di altezza e non c’erano scalini sul suo tronco. Istintivamente, frugò nella sacca e ne estrasse un pezzo di legno: era il bambù intagliato a forma di panda.

La CaVeRnA dI pIeTrO

Capitolo secondo - La caverna dell’orso


La caverna era scura e profonda, ma riusciva a intravedere un fioco bagliore al fondo. Seguì la luce nel buio della caverna; le pareti erano lisce ed umide. La luce si faceva sempre più intensa passo dopo passo, fino a fargli intravedere la sagoma di qualcosa molto somigliante ad un letto. In effetti, era proprio un letto; senza pensarci due volte si coricò e chiuse gli occhi in attesa che il temporale si placasse. Non aveva avuto neanche il tempo di riprendere un po’ il fiato, reso pesante dalla pioggia, quando sentì un rumore di passi che rimbombava nelle pareti della grotta. - Numi del gran paradiso! - . Sbucò fuori dall’oscurità un orso con tanto di cappotto, cappello e bastone da passeggio, il quale, infreddolito, gli fece un cenno di saluto. L’arrivo dell’orso lo lasciò di stucco, facendolo balzare in piedi davanti al letto. Ma ciò che lo stupì più di ogni altra cosa era che l’aveva salutato. Si chiese come faceva l’orso a conoscerlo. Intanto la bestia, con molta calma e per niente turbata dalla presenza estranea nella sua caverna, si diresse verso un mobiletto inchiodato alla parete rocciosa, e ne tirò fuori un pezzo di carne secca. Poi si sedette al tavolo e iniziò a mangiare, fissando Pietro. – Ne vuoi un po’? – gli chiese. Pietro, confuso dalla situazione, rimase in silenzio per un momento, poi rifiutò l’offerta, incerto sul modo con cui ci si deve rivolgere ad un orso. – Non sai cosa ti perdi, è una gran bontà! – fu la risposta dell’animale. Poi gli chiese di andare a prendere un po’ d’acqua in cantina. Pietro, sempre più stranito disse – Dove la trovo la cantina? - - Ma lo sai benissimo dov’è, dai, la porta di fianco al letto. – Si girò in direzione del letto, ma non c’erano porte. Si rivolse nuovamente all’orso – Ma non c’è nessuna porta! – L’orso intanto aveva finito di banchettare. – Di che porta parli? – chiese. – Ma mi hai detto di andare in cantin... – rispose Pietro. L’orso lo interruppe – Non ci sono cantine qui, siamo in una caverna. Avanti, siedi qui di fronte a me che ci facciamo una partita a scopa. – Aprì un cassetto sotto il tavolo e ne estrasse un mazzo di carte enormi, a misura d’orso. Pietro non lo contrariò, e si sedette. - Numi del gran paradiso! – pensò, - sto giocando a carte con un orso! – L’orso iniziò a distribuire ordinatamente le carte in tavola; – Giochiamo a tre carte o a nove? – chiese. – V..va bene a tre – rispose insicuro. L’orso non sembrava notare l’inquietudine dell’uomo; guardava attentamente le sue carte. Senza più dire una parola, iniziarono a giocare, ed andarono avanti per almeno tre ore. L’animale era instancabile e soprattutto fortissimo a scopa. Poi, improvvisamente Pietro esclamò – Ma non ci sono gli orsi su queste montagne! –
Si svegliò di colpo, e vide che si era addormentato vicino all’entrata della caverna. La pioggia aveva smesso di cadere ed ora il sole, ritornato a splendere, illuminava la caverna, che non era molto profonda. Non c’erano tavolo, letto orso e carte, ne cappotto, cappello e bastone. – Devo aver sognato. – pensò. Un poco intontito dal sogno e dalla luce del sole, che si era fatta più intensa che prima del temporale, uscì dalla caverna. Gli abiti umidi, la pipa e il trinciato inservibili. Nonostante il sole estivo, rabbrividì infreddolito dalle gocce che gli correvano giù per la schiena. Altro che abiti umidi, era ancora fradicio. Pensò di aver dormito non più di tre ore. Si interrogò sul da farsi, mentre, seduto su di una roccia al sole, asciugava i vestiti e intagliava un pezzo di legno trovato nella caverna con il suo inseparabile scalpello. Non riusciva a decidere, i suoi pensieri erano rivolti tutti all’orso. Finito di intagliare, guardò l’opera. - Numi del gran paradiso! Ho scolpito un orso! –
Si incamminò nuovamente lungo il sentiero, senza aver deciso una meta, seccato per la mancanza di tabacco e pipa da fumare.

La CaVeRnA dI pIeTrO

Non era colpa sua, si era scatenato un tafferuglio impressionante, e se la locanda stava bruciando, Pietro non ne poteva niente. - Una frase buttata così ai quattro venti non poteva essere tanto pericolosa - pensava…e invece…
Solo, cacciato dal villaggio, senza un soldo, cosa poteva fare?


Capitolo primo - Un po’ di trinciato


Si mise in viaggio, solo soletto, in cerca di qualcosa o chiunque potesse trovare in quelle montagne. Dopo l’incidente della locanda non gli avevano dato neanche il tempo di raccogliere le sue cose nella capanna. Si ritrovò al limitare di un bosco, nella sacca un po’ di trinciato ed una pipa ormai vecchia e mangiata dai tarli. L’aveva costruita egli stesso tanti anni fa, agli inizi della sua carriera da scultore del legno. Trovava grande soddisfazione nel suo mestiere; gia in giovane età il legno era la sua passione, e nonostante le male voci che giravano in città, s'impegnava senza timore in ciò che amava. Divenuto sempre più abile nello scolpire il legno, decise di abbandonare la città per ritirarsi in un villaggio sui monti, tra gli alberi e la natura. Poi, anni dopo, la locanda prese fuoco…
Camminava tristemente, strisciando le suole degli scarponi di cuoio sulla terra battuta del sentiero montano. Nella sua inquietudine provava, però, un senso di liberazione e di sollievo. Il villaggio era totalmente diverso dalla caotica città, ma neanche li era stato il benvenuto. Sempre visto malevolmente, veniva ignorato da tutti quanti, o quasi. Ma poco gli importava degli altri, era contento con il suo legno. Tirò fuori dalla sacca la pipa e, studiatala per diversi minuti, si promise di fabbricarne un’altra. Seguì un sacchetto di cuoio marrone che conteneva del tabacco. Preparò la pipa e iniziò a fumare tranquillamente, cercando di non pensare a cosa avrebbe fatto da li in poi. Il sentiero era a tratti in piano e a tratti molto irto, e spesso i rovi invadevano lo spazio destinato alle galosce. Gli alberi, per lo più pini e abeti, si elevavano alti e lo riparavano dai caldi raggi del sole estivo. Ma come tutti sanno, il tempo è mutevole in montagna. Il sole e i suoi raggi cedettero il posto a nuvoloni scuri e densi. In circa dieci minuti, la pipa venne spenta dalle prime gocce d’acqua di quello che fu un temporale con i fiocchi. Ora camminava accostandosi ai tronchi dei pini più grossi, cercando di bagnarsi il meno possibile. Ad un tratto vide una specie di arco formato da grosse pietre che fornivano un riparo non molto comodo, ma abbastanza ampio da coprirlo. Sfortuna nera. Da una fenditura della roccia sgorgò un fiotto d’acqua piovana, incanalata fino a lì dai ruscelletti che andavano formandosi nel corso del temporale. Bagnato fradicio, balzò fuori dalla fontanella e cercò un altro riparo. Ormai non sfruttava neanche più la protezione degli alberi; camminava sotto la pioggia scrosciante, mentre gli scarponi si inzaccheravano in un misto di terra, acqua e aghi di pino. Procedeva accompagnato dal rumore delle gocce che si infrangevano a terra, quando vide una caverna scavata interamente nella roccia. - Sempre meglio che niente - pensò.

nOn VeDo La LuNa

PROLOGO: “...ti racconto un segreto...”

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Il sole è bello, splende alto nel cielo, riscalda le nostre giornate e ci rende felici. Ma è questa la felicità che vogliamo? La mia stanza è povera di arredamento: un letto, una scrivania, un paio di chitarre sparse sul pavimento ed una poltrona. Il punto è proprio lei. La poltrona. L’ho spostata davanti alla finestra per un motivo ben preciso.

Per tutto il giorno, o per buona parte di esso, i raggi del sole penetrano attraverso i doppi vetri ed illuminano tutta la stanza. L’architetto ha decisamente fatto un buon lavoro. Eppure non sono soddisfatto. La mia stanza è in un certo qual modo la mia vita, passo in essa la maggior parte del tempo, quando non sono fuori casa. E il sole la riempie della sua armonia, del suo calore, della sua luce splendente, tutti i giorni allo stesso modo. Tutti. Il sole è il mio convivente più stretto, ma è il mio nemico. La mia insoddisfazione; una vita sempre uguale, sveglia presto, scuola, pomeriggio diviso tra cazzeggi vari e compiti da svolgere per il giorno seguente, e la sera a letto... No!
La sera non si dorme! Proprio non me la sento di andarmi a coricare con la fastidiosa sensazione di non aver concluso niente. Perché è sempre così. Dopo una giornata spenta e uguale alle altre trecentosessantaquattro, ormai l’emozione più forte che provo è di non aver risolto assolutamente nulla. Non è che mi vada molto a genio.

La caratteristica che preferisco della mia poltrona è che da seduti si vede solamente il cielo dalla finestra, e se dovessi fare una foto del panorama, nessuno riconoscerebbe il solito paese, le solite case, le solite persone. Sarebbe una finestra qualsiasi ed il cielo, niente di più.

Ho iniziato a pensare che se il sole è il mio nemico, la Luna dovrebbe essere la mia migliore amica.
La Luna si presenta a noi in modo sempre diverso, in molte sfumature, in quarti, a metà, piena.
Ma la faccia che ci rivolge è sempre la stessa. Ogni notte è di umore differente dalle altre notti. Non ci annoia con la solita storia del “tutto è bello, tutto è bene”. Se il sole è la mia depressione, la Luna è la mia trasgressione. Vivere ogni giorno in modo differente, alla giornata, ciò che capita...capita; poter dire “Ora no!”; sentirsi liberi. Il trampolino di lancio verso la vita che ho sempre desiderato.
La persona che vorrei essere, ma che non sono mai stato. Una persona sempre diversa, ma sempre la stessa.

La poltrona è perennemente riscaldata de’ raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogni calle.
Segue in silenzio, sconsolata, tutto il ciclo del sole, dall’alba al tramonto.
La notte si riprende dalla noia quotidiana e aspetta...ed aspetta. Ed io aspetto con lei. Insieme attendiamo che lei si faccia viva, che ci porti consiglio, che ci faccia sentire meglio. Che ci ricarichi, che ci faccia vivere ai duecento all’ora, che ci faccia vincere la battaglia, che ci faccia cadere sicuri di poterci rialzare sempre, che guidi la rivoluzione.
Sempre la aspettiamo,smaniando come Smeagol smania per il ritorno del suo tesoro.
Tutte le notti, sempre svegli ed attenti. Tutte le notti speranzosi.
Ma ogni mattina, verso l’albeggiare, ci rendiamo sempre conto di una cosa...


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EPILOGO: “...dalla mia stanza non si vede la luna...”

BiSoGnA pReNdErSi Un BuOn VeNtI mInUtI pEr UnA sIgArEtTa

Ogni cosa a suo tempo. Ogni cosa ha il suo tempo.
Bisogna prendersi un buon venti minuti per una sigaretta.

Futsuka è pensierosa. Si rifugia nel suo studio, mille pensieri si rifrangono per la testa. Il sole è ormai tramontato, la penombra sta lentamente invadendo la stanza, rendendo cupa l’atmosfera.
Tira fuori dal cassetto un pacchetto contenente tabacco, Golden Virginia verde, quello che piace a lei.
Non fuma per vizio o per il nervoso, fuma per il piacere. Non le piace pensare alle sigarette come ad una necessità, un bisogno costante, No. Prese in corretta misura, vanno assaporate, non dilaniate frettolosamente e nevroticamente.
Estrae dal cassetto anche un pacchetto di cartine Smoking, a suo giudizio le migliori. Ne prende una e ripone il resto dove l’aveva trovato.
Non concepisce le sigarette dei pacchetti, qualunque marca esse siano. Non cade mai in motivazioni pacchiane del tipo “Fanno più male!”, “Ti fumi catrame!”, No. Se alla sigaretta togli quel rituale suo di preparazione, la maggior parte del piacere svanisce.
Preleva dal pacchetto un poco di tabacco, non molto, ne vuole una leggerina. Lo pone sulla cartina, nel senso corretto, adagiandolo con cura ed attenzione.
Ciò che più le reca fastidio sono le persone del tipo “Smetto quando voglio!”. “Poche palle, dai!” - pensa lei. Il discorso è sbagliato in partenza. Se qualcuno dice - “In questo momento potrei smettere perché non è ancora diventato un vizio...” - è un conto, ma da li a tre settimane (ad esempio) non si mai la dipendenza se arriva o no.
Gira piano cartina e tabacco insieme, formando un sottile cilindro allungato, aiutandosi con entrambi i pollici e gli indici. Fa passare un lembo di carta sotto l’altro, inumidisce la colla con la saliva e chiude la sua sigaretta. Senza filtro, come piace a lei.
Cerca l’accendino. Non lo trova.
Strappa la cartina nel punto in cui c’è la colla, delicatamente. La butta nel cestino, ripone il tabacco nel suo pacchetto.
“Pazienza...” – pensa.

HeLeN

Una sera triste, scura, cupa.
In fondo al vicolo, un gruppetto di randagi vagavano tra i bidoni d’immondizia. Scura

Percorrevo quel vicolo, passo dopo passo, con una fastidiosa tensione addosso, la dannata sensazione opprimente di quei sfottuti palazzi. Merda.
Lo spettacolo era in programma per le ventitre e zero-zero.
Tutti i venerdì sera, alle ventitre e zero-zero, Helen si esibiva in un “localino” che sapeva di marcio, in un quartiere inculatissimo che non raccomando.
Tutti i venerdì sera, alle ventitre e zero-zero, andavo ad assistere al suo show; non sapevo bene perché (lo intuivo), ma mi piaceva farlo. Entrare, sedersi al solito tavolo, ordinare il solito whisky doppio, accendere l’ennesima sigaretta, in una sorta di cerimoniale di apertura per un qualche cosa di abitudinario, ma sempre nuovo.

Alle ventitre e zero-zero spaccate, Helen salì sul palco.
Sembrava brillare di una luce strana, che le sue stesse curve, i suoi stessi lineamenti emanavano. Una volta cominciato lo show, tutti gli sguardi erano per lei, per i suoi movimenti ed i suoi ammiccamenti. Io adoravo guardarla durante le sue esibizioni, e lei ogni tanto si voltava dalla parte del mio tavolo e mi lanciava un ”occhiatina”. Mi sentivo speciale per questo. Un gradino sopra tutti i presenti (tzè!).
“Tutti la guardano, ma lei si volta da me...” – usavo ripetermi in quei momenti. Ammiravo quel suo modo di ballare e spogliarsi allo stesso tempo, lentamente, indumento dopo indumento.
Galleggiavo in un circolo erotico-affascinante, contento di ciò che sentivo.

Tutti i venerdì notte, alle ventiquattro e zero-zero, lo spettacolo terminava.
Tutti i venerdì notte, alle ventiquattro e zero-zero, prendevo il mio montgomery, pagavo il conto ed uscivo, sulla strada, fredda, buia.


Tutti i venerdì notte, dopo la mezzanotte, su di noi, la pioggia

IrOnIa Di Un NoN tEdEsCo

Rosso
Rosso di sera
Rosso quel tetto.
Rossa mia tempia,
premuto il grilletto.
Rosso per chi spara, nero
per chi cede.
Nero senza fede, rosso
chi non crede.

Nero
Nero fosso
Nero schioppo.
Nera tensione,
fa partire il colpo.
Nero per chi teme, giallo
chi ottiene.
Giallo nelle vene, nero
mi appartiene.

Giallo
Giallo di mattina
Giallo sole estivo.
Gialla la mia vista,
cazzo lo sentivo.
Giallo per chi da, rosso
non ha niente.
Rosso nella mente, giallo
fottuto,
bastardo.

AtTiMi Di LuCiDiTà 2006

La notte scende. Scende...
E’ fatta di istanti, piccoli, brevi
Una foglia si posa leggera a terra,
la cenere cade dalla sigaretta ormai spenta,
ed il silenzio è rotto.
Una finestra sbatte, mossa dall’impeto
di un soffio; i fari di un auto illuminano
la strada buia
e la magia si spegne.
Attimi di Lucidità,
in un tempo infinitamente ridotto...
La notte è come il tempo:
mille volti, mille occasioni diverse
scorre, lenta, inesorabile.
La notte è il significato da comprendere,
la fredda sensazione di essere diversi,
altrove.
La notte è l’immaginario collettivo.
Attimi di Lucidità,
in un tempo senza fine...