martedì 9 dicembre 2008

Meglio un cazzo stilizzato che un ebreo gasato

Non ho mai nutrito particolare interesse verso il macabro gusto per la questione ebraica. Nessuno sa niente, e quei pochi che qualcosa lo sanno, ti raccontano i campi di sterminio. Ma di fronte alle foto sappiamo tutti inorridire, eh! Mi hanno gonfiato le palle, e io me ne sono strafregato. Mi piace di più provare a capire perché la maggior parte degli uomini disegna cazzi stilizzati un po' ovunque.
Pensavo, per quale oscuro motivo psicopedagogico ragazzini tartassati da culi tette e veline si divertono disegnando il proprio membriciattolo in forme e proporzioni ridicole? Ci deve essere un guasto. Un amico mio risolve il problema con poche semplici dirette spicciole parole, votando per il cazzo al concorso di bellezza per il miglior organo sessuale. Quel concorso con i fiori.
Un giorno, a Torino, dopo due interminabili ore di geografia serena in un banco minuscolo, con il gomito che spintona il vicino e le ginocchia che infieriscono sulla schiena di quella davanti, sono andato a pisciare, al primo piano di palazzo. Ho salito le scale, dopo la porta con scritto “gentlemen”, e ho alzato gli occhi. “Erba libera!, “Nazi culo rotto”, “Comunisti di merda”, qualche commento del padreterno sempiterno, un cazzo stilizzato. Va bene. Aperta la porta, dentro la turca. Sul pulsantone bianco dell'inquisizione c'era appiccicato un adesivo delle wincs sorridenti. Una delle wincs ha la bocca aperta in una risata. Dopo la piscia, ho riguardato l'adesivo, notando appena, in penna nera, l'infame nascosto tra i fumetti, cazzo stilizzato che le si infila in bocca. Va bene. Va tutto estremamente bene.
Sono tornato a casa sollevato.

Quell'albero di pece


Sul l'albero la pece continuava
a ribollire. Pochi fili d'erba.
Qual che carogna. Metaforizzava
paesaggi, maestosa riserva
di passioni avvizzite per lo sdegno,
invischiava e ricopriva serva
del dolore il capo d'antico legno,
con fare di movenze singolari
taceva l'altrui guerra, l'altrui pegno.
Non mai rari di sole raggi cari
tentavano in vano di penetrare,
per cogliere, in linfa, echi normali.

Quell'albero di pece
Continuava a ribollire
E stanco d'avvizzire
Sognava di morire.

1988 - Di vita in morte di un parcheggio

Questa notte tira una brezza niente male, ma non è vento, e le foglie secche cadono dai rami con fare molto autunnale. Gialle e avvizzite. Luride e malconce. Sono alla piazza del paese, seduto su una delle panchine ambite da giovinastri e non. Un luogo squallido, un parcheggio, che ogni giorno ne vede tante ed ogni giorno vede le stesse. Accendo una sigaretta, con calma, inclinando la testa di lato come nei film western di ant'anni fa. Dunque, solitamente il posto presenta quattro gatti, ma ora non ci sta nessuno nei paraggi. In effetti, è notte fonda, forse dormono. Uno di loro dorme della grossa, è in coma. Non so se andare a trovarlo o no.
Ogni benedetta estate l'ho passata su queste maledette panchine, negli ultimi quattro anni, tra discussioni e asserzioni riguardo merda, sborra, cazzo, donne che passano e non ce n'è uno che abbia la decenza di non commentare, e documenti consegnati agli sbirri e quant'altro. Per fortuna l'estate è finita. Cominciavo ad odiarlo, questo posto. A osservarlo adesso, senza anima viva, sembra già un poco più affascinante, circondato da una melensa nebbia malinconica. Esprime tutto il dissapore per una mediocre e bistrattata esistenza, e mi mette a disagio. Le macchie di piscia sui muri che non vanno più via. Il bidone della spazzatura che non viene svuotato neanche a pagare. Il mucchio di spazzatura ai piedi del bidone. Le due panchine che perdono i pezzi e si frantumano come briciole di pane. Nel gelido torpore notturno si bloccano, come se il tempo si fermasse in un istante denso di abbandono. Ma la piazza sa di illudersi, e il tempo scorre soprattutto per lei.
Ho fumato metà sigaretta, pensando che tutto ciò mi ispira qualcosa di indefinito che prima o poi scriverò.
Ho finito la sigaretta pensando a quanto adoro l'espressionismo ed alla mia auto nuova.

1988 - Fino al filtro

Calcava la mano quella sera, mani pesanti dritte in viso, un male inimmaginabile.
Lei lo amava, tutte le botte del mondo non le avrebbero fatto cambiare idea. Certo che no. Neanche tutte le bellezze del mondo avrebbero pututo. Una volta era addirittura scappata, una vita da lasciare alle spalle, ma era presto ritornata, viaggio nel retro del furgone. Legata. Livida e violacea.
Piccola e fragile si era ricomposta, un panno umido per pulirsi le labbra dal sangue, in fondo lui era solo un poco nervoso. Come quella volta in cui l'aveva intagliata come una scultura. Ah! la forza dell'amore dove può portarci. Visioni catastrofiche e poca sostanza. In fondo erano lei del sessantotto e lui del sessantadue, tra pochi anni sarebbero morti, un po di pazienza ed un'altro po' di botte.
Quella sera le aveva prese perchè il capo-ufficio di lui non aveva voluto sentire storie. Un giorno di permesso per andare allo stadio a vedere la Juve no. Cazzo l'aveva mandato su tutte le furie. Dopo sole due settimane di mutua, non poteva negarglielo. E allora giù botte. Così ci si rilassa per bene. Ripresasi dalla discussione, in cucina a fare cena, lo spezzatino con la carote, a lui piace molto. Tanta carne e poca verdura, che si senta giusto una puntina di retrogusto. Poco sale, che fa male.E tanto sale che ostruisce le arterie. E la carne dura come il tavolo, come le sedie, il pavimento.E un colpo solo e su quel pavimento sangue. Cade la rivoltella dalla mano, la paura del futuro libero. E la corsa verso il telefono. Ho ucciso mio marito, venite. E l'attesa sul divano per l'arrivo della volante. Mai mezz'ora di libertà fu più bella, consolatoria. Peccato per la mamma al piano di sotto, l'avrebbe chiamata volentieri. Fumando una sigaretta. Lunga quinidici anni, goduta fino al filtro. Goduta fino al filtro. Esasperata fino al filtro. Quando finisce, ed è ora di accenderne un'altra.